In nome del nostro albero di melograno

di Razi e Soheila Mohebi

“A volte uno non si cura dei passeri e non sente quello che hanno da dire. A volte non si cura di sentire il suono di flauto del pastore e non distingue le voci delle pecore e degli agnelli e non si capisce cosa vogliono dire e poi arriva anche la volta in cui non sente più i sospiri e i gemiti delle altre persone. L’esperienza della massimizzazione , sempre al suo apice, è possibile solo per l’uomo in guerra.

“Guerra significa massimizzare tutto.”

Il nostro asino nero e altri. Memorie di Jaghoori-Afghanistan

Mi viene da dire che tutto sia andato ad una velocità atroce, ma poi mi fermo sul mio pensiero: sapevamo fin dal lontano 2011, quando siamo partiti con una equipe della FilmWork sostenuta a sua volta dal Forum Trentino per la Pace e i Diritti Umani, per girare il primo episodio di “Afghanistan 2014 campo lungo”.

Il film racconta la prospettiva della comunità internazionale dopo il loro ritiro delle truppe dall’Afghanistan. Abbiamo percorso le nostre inquietudini fino al 2014 realizzando il secondo episodio “Afghanistan 2014, Insert” e attraversando l’Europa, dalla Grecia all’Italia, dalla Germania alla Svezia, abbiamo domandato della diaspora afghana in esilio, per sapere cosa pensano possa accadere con il ritiro definitivo delle forze internazionali. Abbiamo guardato e riguardato il film, sembra che tutti conoscano già le tenebre di questa soglia. Come può una soglia essere così buia e incognita? Mormorano nella mia mente le impotenze di cui parlava Samir Kassir, intellettuale libanese assassinato nel giugno del 2005.

In continuità con il Progetto Afghanistan 2014, nato nella vostra terra – e che nostro figlio conosce come la sua tanto da cucire le montagne con il suo essere – abbiamo iniziato a celebrare assieme “Nowruz”, il giorno dell’equinozio di primavera e come simbolo di questa festività abbiamo piantato un albero di melograno nel giardino della Bookique, a Trento.

La celebrazione di Nowruz a Trento, 2018

Sono stata di recente a Trento e ho visitato il nostro albero di melograno che vive felicemente in città, e mi sono detta che se dalla nostra presenza in questa terra è questa la traccia che rimane, mi sento appagata.

Nostre carissime amiche e carissimi amici di Trento e di tutto Italia, voi che siete stati la nostra casa negli ultimi quattordici anni di vita in Trentino. In nome di questo albero di melograno che nel vostro giardino respira, vi chiediamo di riflettere sulle possibilità di creare un corridoio umanitario, per le donne e i giovani soprattutto, che in questi anni sono stati attivi in campo artistico, mediatico e giornalistico e che ora rischiano la vita.

Un genocidio culturale è in corso.

È grave…

I nostri sinceri saluti,

Razi e Soheila Mohebi

Fermare i rimpatri, aprire i corridoi umanitari

Il Forum Trentino per la Pace e i Diritti Umani ha inviato una lettera al Presidente Fugatti, al Presidente del Consiglio Kaswalder, all’Assessore alla cooperazione per lo sviluppo Gottardi, ai Consiglieri e alle Consigliere provinciali, alle Sindache e ai Sindaci trentini per esprimere la più grande preoccupazione per quanto sta avvenendo in Afghanistan

Allo stesso tempo, il Forum ha espresso alle istituzioni provinciali e ai Comuni profondo sconforto per le reazioni di alcuni Paesi europei che affrontano l’acuirsi della crisi umanitaria in Afghanistan unicamente da un punto di vista utilitaristico, concentrando la propria attenzione sul “rischio di una nuova crisi migratoria” e sul “rischio terrorismo”.

In particolare, il Forum ha chiesto alle istituzioni di attivare le reti territoriali e nazionali allo scopo di predisporre corridoi umanitari direttamente con il Trentino, terra di accoglienza, per coloro i/le quali rischiano la propria vita rimanendo in Afghanistan, con particolari tutele e garanzie per le donne afgane e le loro famiglie

Il Forum ha chiesto anche di facilitare l’individuazione e sostenere le realtà che sul territorio della Provincia e dei Comuni trentini si renderanno luoghi di accoglienza per le persone in fuga dall’Afghanistan e di farsi portavoce con il Governo affinché vengano attivate iniziative simili sul territorio nazionale e per riattivare iniziative simili nei confronti delle persone lungo le principali rotte migratorie.

Nelle scorse settimane, Austria, Danimarca, Belgio, Grecia, Paesi Bassi si sono detti contrari a interrompere i rimpatri in Afghanistan, ribadendo di voler aiutare i profughi “sul posto”, Paesi nei quali sono frequenti episodi di violenza verso le persone migranti

Lo scorso 23 luglio 2021 30 organizzazioni non governative chiedevano ai Paesi europei di cessare le deportazioni e i rimpatri verso l’Afghanistan, sia in forma diretta che attraverso il coordinamento con altri Paesi, ma – anzi – di rivedere le decisioni negative già adottate così come i decreti di espulsione alla luce dei rischi, concreti e prevedibili, di future persecuzioni.

A queste prese di posizioni segue quella di Emergency, da sempre attiva e presente sul territorio afgano: “mentre in Afghanistan si combatte ovunque, il pensiero di alcuni Paesi europei è rimpatriare i profughi afgani e riportarli indietro, in un Paese che è meno sicuro che mai”.

I dati di UNAMA, la missione ONU attiva nel Paese fin dal marzo 2002, evidenziano questa realtà: 5.183 vittime civili complessive negli ultimi 6 mesi, tra feriti e deceduti, con un aumento del 47% rispetto allo scorso anno. Una cifra, peraltro, che in un solo semestre eguaglia i record negativi registrati nel 2016, nel 2017 e nel 2018. 

In questi giorni, il ricordo di Gino Strada ha coinvolto tante e tanti, a volte a sproposito. Lui lo ricordava sempre: “non credere una parola, quando diranno che hanno “sconfitto il terrorismo”. Sono bugie, enormi bugie che difenderanno con i denti per coprire i propri crimini e i propri interessi. Ma i morti e i feriti sono lì, se ne trovano i resti e la memoria, se si ha il coraggio di farlo”.

L’Afghanistan non è – e non era – un Paese sicuro.

Per il Forum trentino per la pace e i diritti umani, il Presidente

Massimiliano Pilati


Hiroshima e Nagasaki, perché non basta ricordare

Incapaci di vedere?

L’essere umano, con la sua capacità di alterare la natura a proprio piacimento, è la principale minaccia per se stesso nella stessa misura in cui è la principale speranza per la propria sopravvivenza. A ricordarci questo, è ogni giorno la questione del cambiamento climatico provocato dalle attività antropiche, il quale mostra le grandissime capacità dell’essere umano di auto annientarsi in maniera quasi inconsapevole. 

L’incapacità di vedere come la propria azione è causa del proprio stesso male, è tale perché l’effetto delle proprie azioni negative è indiretto. 

Se però, l’essere umano può fare fatica a vedere gli effetti delle proprie azioni perché indiretti, che succede quando gli effetti sono diretti, visibili, concreti e soprattutto già conosciuti, come quelli di un’esplosione atomica? 

Succede che, per “aumentare” la propria sicurezza, i governi spendono migliaia di risorse ogni anno per fabbricare armi atomiche e mantenerle attive, che aumentando sempre di più di numero e di potenza, rendono la terra un posto più pericoloso, anziché più sicuro.  

È bene ricordare dunque, quello che è successo esattamente 76 anni fa, in un tempo che sembra così lontano in un luogo che lo è altrettanto, il Giappone, ma che riguarda tutti noi ancora oggi da vicino, visto che all’inizio del 2021 sono ancora 13.100 circa le testate nucleari attive nel mondo (1) 

6-9 agosto 1945 

Oggi, 6 agosto 2021, ore 8.16, la stampa nazionale e locale sembra essersi dimenticata di quanto successo 76 anni fa. Il “green pass”, le olimpiadi e Messi che lascia il Barcellona hanno monopolizzato la scena dell’informazione, mostrando quanto sia pericoloso relegare gli eventi nei meandri del passato, come se non ci potesse toccare più. 

La mattina del 6 agosto 1945, alle ore 8.16, un grande bagliore sorprende i cittadini di Hiroshima in Giappone. Seguirà una grande esplosione, che raderà al suolo la città, uccidendo sul colpo circa 80.000 persone, nella quasi totalità civili (2) 

Tre giorni dopo, come se la quantità di morti non fosse stata sufficiente, una seconda esplosione, questa volta a Nagasaki, provocò 40.000 vittime all’istante. (3) 

Stiamo parlando degli unici due ordigni atomici della storia fatti esplodere sulla popolazione umana. A eseguire questo massacro, fu il governo degli Stati Uniti D’ America, che provocò in totale, tenendo conto anche delle morti nei mesi successivi causate dagli effetti delle radiazioni nucleari, circa 400.000 mila vittime. (3) 

foto da: public domain

Leó Szilárd, uno dei fisici che partecipò al Progetto Manhattan, a proposito del mancato processo ai mandanti ed esecutori della tragedia disse:

« Se i tedeschi avessero gettato bombe atomiche sulle città al posto nostro, avremmo definito lo sgancio di bombe atomiche sulle città come un crimine di guerra, e avremmo condannato a morte i tedeschi colpevoli di questo crimine a Norimberga e li avremmo impiccati. (3)

Superando però la logica del colpevole, andando oltre alla storia e ad i protagonisti che l’hanno scritta, è bene sottolineare quanto sia stato un gesto freddo, disumano e totalmente razionale e programmato.

“Non ho mai avuto paura nella mia vita dell’uomo solo, ma ho sempre avuto molta paura dell’uomo organizzato. “

Fabrizio De André

Non è stata infatti una scelta “istintiva”, basata su un momento d’emergenza, (il Giappone era ormai rimasto solo, dopo che anche la Germania di Hitler aveva alzato bandiera bianca). Ma una scelta iniziata già nel 1942 con il progetto Manhattan, diretto da Robert Oppenheimer.

L’intento degli Stati Uniti era quello di concepire una bomba a fissione nucleare (o bomba atomica) prima del progetto atomico della Germania nazista. 

Gli scienziati che lavorarono al progetto, fra cui Albert Einstein, dopo un primo momento di entusiasmo per la ricerca si accorsero ben presto dell’immenso potere distruttivo della bomba atomica.

«e quelle bombe atomiche che la scienza sganciò sul mondo quella notte, erano misteriose anche per gli uomini che le usarono»

La liberazione del mondo – H.G. Wells

Il 16 luglio 1945 a  Socorro, New Mexico viene fatta esplodere la prima bomba atomica della storia, in quello che viene chiamato Trinity Test. (5)

Poco meno di un mese dopo, l’evento di Hiroshima e Nagasaki mostrerà al mondo la forza distruttiva degli ordigni nucleari e soprattutto, la straordinaria capacità autodistruttiva dell’essere umano.

Il quotidiano eritreo, 9 agosto 1945, effetti della bomba a Hiroshima

Se si vuole avere un’idea della portata distruttiva delle armi atomiche, cliccando qui si può simulare l’effetto di un’eventuale esplosione atomica, da un qualsiasi punto della terra. Impressionante vedere l’effetto che la “tsar bomba” la bomba atomica più grande testata dall’URSS, provocherebbe se esplodesse nel centro di Trento: il raggio distruttivo arriverebbe da Bolzano fino alle porte di Verona e Vicenza, spazzando via completamente tutto il territorio Trentino.

La deterrenza nucleare è sufficiente?

La reazione degli Stati di fronte a tale catastrofe però, non fu quella di fare un passo indietro ma anzi, la corsa agli armamenti nucleari partì proprio da quella data, arrivando ad un picco poco dopo il 1985 con ben 70.000 ordigni atomici prodotti, principalmente dai due protagonisti della Guerra Fredda, Usa e URSS. (3)

L’aumento e l’espansione delle armi atomiche in molti stati ha mostrato la l’esistenza di un possibile meccanismo presente nelle dinamiche internazionali, quello che viene chiamato deterrenza nucleare, ossia la credenza che gli stati sono scoraggiati nell’utilizzare tali armi perché un’eventuale rappresaglia sarebbe “totalmente distruttiva” (6)

 “Sappiamo che la deterrenza nucleare può venir meno, sia attraverso decisioni sbagliate, escalation durante una crisi, una serie di errori meccanici e umani, o atti malevoli che portino ad un uso involontario. Infatti più volte essa è venuta meno, e l’esempio più famoso è la Crisi dei missili di Cuba del 1962.Una catena di eventi che porti alla guerra nucleare può emergere anche quando nessun leader politico ritenga che sia nell’interesse dello Stato iniziare la guerra, ed entrambe le parti agiscano in modo inteso ad evitarlo. La lunga lista di incidenti nucleari, malfunzionamenti, contrattempi, falsi allarmi e incidenti mancati per un soffio, spesso innescati da errore meccanico e umano, continua a crescere. Tali incidenti sono incidenti relativi ad aerei e sottomarini armati nuclearmente, sistemi di allarme che scambiano stormi di oche o riflessi di luce solare per lanci di missili nemici, squadre di manutenzione che fanno cadere utensili e fanno saltare in aria silos di missili, e la perdita temporanea o lo smarrimento di ordigni nucleari.” (6)

Se la deterrenza nucleare è, per ora, l’unico fragile ostacolo contro una possibile guerra atomica, l’ unica soluzione per una reale sicurezza globale a lungo termine è smantellare completamente tutte le armi nucleari presenti sulla terra.

Le prime dichiarazioni a favore del disarmo, arrivarono proprio da quegli scienziati che parteciparono alla ricerca sull’atomica. Nel 1955 in piena Guerra Fredda, Albert Einstein e il filosofo Bertrand Russell scrissero un manifesto firmato da scienziati e intellettuali a favore del disarmo nucleare e contro le armi di distruzione di massa.

Il manifesto Russel-Einstein è rivolto a tutti gli esseri umani indistintamente:

Tenteremo di non utilizzare parole che facciano appello soltanto a una categoria di persone e non ad altre. Gli uomini sono tutti in pericolo, e solo se tale pericolo viene compreso vi è speranza che, tutti insieme, lo si possa scongiurare. Dobbiamo imparare a pensare in modo nuovo. Dobbiamo imparare a domandarci non già quali misure adottare affinché il gruppo che preferiamo possa conseguire una vittoria militare, poiché tali misure ormai non sono più contemplabili; la domanda che dobbiamo porci è: “Quali misure occorre adottare per impedire un conflitto armato il cui esito sarebbe catastrofico per tutti?”   (7)

e mette in guardia del pericolo delle nuove tecnologie nucleari, come la bomba all’idrogeno, già capace (allora) di essere 2500 volte più potente della bomba di Hiroshima.

Il Trattato per la Proibizione delle Armi nucleari 

Quello che possiamo fare oggi, come cittadini e come istituzioni, è spingere perché anche il nostro Paese e l’ Unione Europea ratifichi il Trattato Per la proibizione delle armi nucleari

Il TPNW è uno strumento giuridicamente vincolante che prevede la messa al bando e lo smantellamento delle armi nucleari. Approvato il 7 luglio 2017 grazie al voto favorevole di 122 Stati dell’assemblea ONU, proibisce agli Stati di sviluppare, testare, produrre, realizzare, trasferire, possedere, immagazzinare, usare o minacciare di usare gli armamenti nucleari, o anche permettere alle testate di stazionare sul proprio territorio.

Il 22 Gennaio 2021, grazie al raggiungimento della soglia di 50 Stati che hanno ratificato il trattato, entra ufficialmente in vigore la messa al bando delle armi nucleari, un importante passo verso il disarmo globale.  

La mappa degli Stati che hanno firmato, partecipato o rifiutato il trattato.

In Europa, solamente Austria, Svizzera, Il Vaticano, Malta, San Marino e Irlanda lo hanno ratificato . 
Nonostante il governo italiano abbia rinunciato a partecipare al trattato, un sondaggio promosso dalla Campagna ICAN e dai suoi partner nazionali mostra come 7 italiani su 10 siano a favore della firma del TPNW.

Oltre alla minaccia di un’estinzione di massa, cosa che sembra non preoccupare molto il mondo politico, lo spreco di risorse economiche per le armi nucleari è enorme. 

“le 13.400 testate atomiche esistenti nel mondo hanno costi da capogiro: circa 140mila dollari al minuto, per un totale di oltre 70 miliardi di dollari nel 2019 , pari a 24 volte il budget annuale delle Nazioni Unite . Se si calcolano anche i costi indiretti, come i danni ad ambiente e salute o la difesa missilistica per proteggere le testate nucleari, il costo supera i cento miliardi l’anno.” (10)

A noi la scelta

È  giunto dunque il momento di scegliere, di prendere in mano il futuro dell’umanità e mettere da parte il tribalismo che ci portiamo dietro da millenni, per aprire nuove strade di convivenza pacifica tra esseri umani e tra essere umano e natura. 

La questione ambientale infatti, non sarà mai completamente risolta finché esisteranno armi di distruzione di massa, capaci non solo di uccidere in pochi istanti migliaia di esseri umani, ma di distruggere interi ecosistemi in pochi attimi, con la possibilità che la distruzione sia irreversibile, e che questi ecosistemi così fragili, nonché la vita sulla terra non siano più in grado di rigenerarsi.

Questo dunque è il problema che vi poniamo, un problema grave, terrificante, da cui non si può sfuggire: metteremo fine al genere umano, o l’umanità saprà rinunciare alla guerra?

Ci attende, se lo vogliamo, un futuro di continuo progresso in termini di felicità, conoscenza e saggezza. Vogliamo invece scegliere la morte solo perché non siamo capaci di dimenticare le nostre contese? Ci appelliamo, in quanto esseri umani, ad altri esseri umani: ricordate la vostra umanità, e dimenticate il resto. Se ci riuscirete, si aprirà la strada verso un nuovo Paradiso; altrimenti, vi troverete davanti al rischio di un’estinzione totale.”

Manifesto Russel-Einstein

Capire, conoscere, immaginare, cambiare: oltre la nostra insostenibilità

La prima fase del progetto Vivila in 3D si sta avviando alla sua conclusione: dopo la lettura delle etichette e il riuso, la campagna immaginata, progettata e realizzata da tantз ragazzз, in servizio civile e non, affronta la sua terza call to action: vivere e scegliere modi per produrre in modo più sostenibile.

Capire per conoscere, conoscere per immaginare, immaginare per cambiare. 

Per una produzione sostenibile cerchiamo di capire quali siano i maggiori problemi da affrontare, conoscere le vie esistenti e immaginare modalità di cambiamento per agire, in prima persona.

Produzione sostenibile – Vivila in 3d

Il punto di partenza di questa riflessione sembra lontano: il tempo inteso come risorsa, sfruttato ferocemente e piegato alla logica del “poter fare” tutto, a prescindere da tutto. In questo si rispecchia una produzione che estrae le risorse, distorce i rapporti, determina un sistema fatto “di sfruttamento, svalutazione della cura, distruzione degli strumenti di welfare pensati per bilanciare i ritmi – i tempi – di vita delle persone”.

Foto di Mike van Schoonderwalt da Pexels

A questa si contrappone “un modo di produrre sostenibile e consapevole, che guarda alle risorse in modo ragionato, che concepisce il tempo anche al di là della sua natura produttiva”: un tempo diverso cui corrisponde una produzione diversa. Alla base di tutto, la necessità di fare delle scelte per andare oltre l’idea – illusoria – del progresso infinito.

Come per le altre call-to-action, anche in questo caso il viaggio di Vivila in 3D indaga le dimensioni della sostenibilità con uno sguardo miope, aperto, attento all’impatto che possono avere le azioni individuali, le pratiche collettive e le politiche pubbliche separatamente ma, in modo più efficace, se sanno cooperare e trovare strumenti ibridi con cui cambiare il mondo.

Per questo, la seconda tappa di questo percorso racconta Maso Pez e il senso con cui Progetto 92, nelle sue serre, coltiva in maniera sostenibile e costruendo comunità. I progetti portati avanti – Vivaio TuttoVerde, l’officina di assemblaggio, Beelieve – sono tutti pensati sui bisogni e le capacità delle persone coinvolte ma rispondono tutti alla necessità di costruire percorsi di lavoro basati sulla qualità del prodotto e, quindi, delle relazioni.

https://www.facebook.com/vivilain3D/posts/167051448826148

Tra questi progetti, Beelieve offre un elemento ulteriore: la costruzione di reti che vadano oltre la relazione interna alla cooperativa. Ecco, allora, che vengono coinvolti i ricercatori e le ricercatrici del MUSE e della Fondazione Mach così come operatori e operatrici dell’Associazione degli Apicoltori o imprese come Redo Upcycling. Un equilibrio complesso, che tiene assieme tutte le dimensioni della sostenibilità.

La stessa complessità che, in forme e con sfumature diverse, troviamo anche nella valle di Terragnolo, al Masetto: un posto unico, che unisce ospitalità e cultura per raccontare un’altra montagna: “una valle come quella di Terragnolo non ha – e speriamo non avrà mai – grandi infrastrutture e insediamenti industriali: per me, dunque, è una valle sostenibile. “Per contro, però, è una valle che ha subito un forte processo di spopolamento, e che adesso sta cercando di riflettere sul proprio futuro” racconta Gianni Mittempergher, che con Giulia Mirandola ha dato vita al Masetto.

https://www.facebook.com/vivilain3D/posts/168438708687422

“Non si parla di progetti giganteschi, quanto di recuperare i muretti a secco, i terrazzamenti, la coltivazione del grano saraceno e un concetto di turismo lento. Anche se, più che lento, devo dire che mi piace chiamarlo attento. Un turismo che inviti a conoscere il territorio che si sta visitando”.

Una produzione sostenibile, dunque, richiede tempo. Anzi, di più: richiede di scegliere un modo diverso in cui usarlo. Richiede anche di cambiare il punto di vista, di rimettersi in gioco: per questo Vivila in 3D racconterà, con una serie di video-tutorial, modi per autoprodurre alcune piccole cose che possono aiutare nella vita di tutti i giorni.

La campagna sta chiudendo la sua prima fase, insomma, ma il cammino di Vivila in 3D è solo agli inizi.

Armi saudite a Genova: la protesta

“Dal 2019 ad oggi, ogni venti giorni nello scalo genovese getta l’ancora una delle sei navi cargo della Bahri, già carica di armamenti ed equipaggiamenti militari o pronta a caricarne di nuovi negli scali statunitensi verso cui fa rotta prima di tornare a Gedda, in Arabia Saudita. Il contenuto di queste “navi della morte”, come denunciato dal Calp e dall’osservatorio Weapon Watch, finisce poi nelle mani della Guardia civile saudita, tuttora impegnata in scenari di guerra come quello yemenita”.

Lo riporta il quotidiano Domani, con un pezzo di Futura D’Aprile che dà atto della protesta organizzata al porto di Genova per la giornata di oggi dal Collettivo autonomo dei lavoratoti portuali (Calp), iniziativa che non nasce nel vuoto ma che segue le denunce circa l’utilizzo dei porti italiani come attracco per mercantili sauditi che portano armi in Medio Oriente per sostenere la guerra in Yemen e non solo.

Porto di Genova, ItaliaLicenza

Condanne che arrivano da più parti: l’osservatorio Weapon Watch denuncia da tempo queste attività e propone campagne di sensibilizzazione per avere “porti etici”.

Ancora a gennaio 2020, Patrick Wilken, ricercatore di Amnesty International, dichiarava: “Adesso, la volontà politica dei governi di rispettare il diritto internazionale viene messa nuovamente alla prova. Attivisti e lavoratori portuali sono già ampiamente allertati rispetto alla minaccia che la ‘Bahri Yanbu’ aggiri le norme internazionali in nome dei lucrosi accordi in materia di armi che hanno favorito uccisioni di civili in Yemen e una terribile catastrofe umanitaria“.

Le proteste del Calp, a Genova, risalgono a maggio 2019, quando “i portuali si rifiutarono di caricare sulla Bahri Yanbu due generatori registrati per uso civile ma che sarebbero stati in realtà impiegati dalla Guardia civile nel conflitto in Yemen”. Un’azione di boicottaggio che ha portato la compagnia saudita ad abbandonare lo scalo di Genova per un po’ ma che fece finire 5 portuali sotto inchiesta per associazione per delinquere.

Una protesta che ha trovato il sostegno di Papa Francesco, che il giugno scorso ha incontrato i portuali che avevano bloccato il carico nel 2019. Oggi quella compagnia è di nuovo in porto, a Genova, e il Calp sarà in presidio: una protesta che riguarda il contenuto del cargo, l’uso dei porti italiani e le politiche industriali, che ancora vedono nell’industria delle armi un settore imprescindibile, ma che riguarda anche la mancanza di informazioni e trasparenza su questi traffici.

Ad oggi il Governo italiano non ha cambiato il proprio approccio: non ci sono nuove regole per quanto riguarda il traffico d’armi che, anzi, sono state allentate per quanto riguarda l’export verso l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti nonostante il loro coinvolgimento nel conflitto in Yemen.

Temi sui quali, come Forumpace, ci siamo espressi già molte volte: non possiamo allentare l’attenzione. Esistono norme – interne e internazionali – che riguardano la regolamentazione delle esportazione di armi e prodotti bellici: in Italia, la legge 185/1990 dà il quadro normativo di riferimento, lo stesso quadro che ha inibito l’export verso Arabia ed Emirati Arabi durante il 2019.

Una legge, però, troppo spesso bypassata o ignorata, preferendo alla tutela dei diritti umani le logiche del mercato. Su questo, Rete Italiana Pace e Disarmo ha promosso, ancora lo scorso maggio, “un appello al Governo per ribadire la necessità di applicare in modo rigoroso e trasparente la Legge 185/90 e le norme internazionali che la rafforzano. Invitano inoltre il Parlamento a controllare in modo puntuale e approfondito le operazioni che riguardano l’export di armamenti: sono regole e controlli preposti alla salvaguardia della pace e della sicurezza comune, al rispetto dei diritti umani, alla tutela delle popolazioni e per dare attuazione al ripudio della guerra “come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali” sancito dalla nostra Costituzione (art.11)”.

Da qui dobbiamo proseguire.

Un Consiglio per i giovani!

Arriva anche in Consiglio provinciale un progetto di servizio civile: grazie a “Un Consiglio per i giovani!”, 3 giovani potranno sperimentare l’attività istituzionale del Consiglio provinciale, affiancando lo staff di tre uffici – l’Ufficio Stampa, l’Ufficio di Assistenza d’Aula e Commissioni e l’Ufficio di Presidenza – e le attività legate alle visite guidate del Consiglio con le scuole e con i gruppi di adulti.

Assieme al Presidente della Provincia e alla Giunta provinciale, il Consiglio provinciale è uno degli organi della Provincia Autonoma di Trento: in pratica è il Parlamento trentino, un organo rappresentativo, eletto a suffragio universale, diretto e segreto, l’organo di indirizzo politico della Provincia.

Gli scopi del progetto

Il progetto ha due scopi: da un lato, fornire ai giovani e alle giovani che saranno in servizio civile un’esperienza formativa dentro una struttura istituzionale complessa e di cittadinanza attiva; dall’altro, il progetto ha lo scopo di inserire uno sguardo diverso all’interno dello staff dei vari uffici coinvolti: la presenza di un/a giovane in servizio civile sarà l’occasione per coinvolgere uno sguardo diverso, originale, nell’attività ordinaria così come nella progettazione, pianificazione e realizzazione delle visite guidate al Consiglio.

In quel particolare contesto, poi, la presenza la presenza del/della giovane garantirà l’opportunità di dare alle visite una struttura più laboratoriale e partecipativa, tanto da parte degli studenti e delle studentesse quanto del corpo docente coinvolto.

Far parlare di pace e di diritti

Il Forumpace ha presentato un nuovo progetto di servizio civile. “Far parlare di pace e di diritti” ha lo scopo di coinvolgere un/a giovane nelle attività del Forum e, in particolare, nel lavoro con giovani e scuole.

Il progetto darà la possibilità al/la giovane di conoscere tanto la dimensione istituzionale quale quella associativa del Forum ma, soprattutto, gli/le darà modo di mettersi alla prova, di approfondire e sviluppare strumenti per diffondere la cultura della pace e dei diritti attraverso azioni e progetti pensati e costruiti insieme a studenti e studentesse.

Lo scopo dell’intero progetto è quello di elaborare strumenti condivisi e finalizzati a costruire comunità più coese, consapevoli e solidali, capaci di non pensare progetti “per i giovani” ma soprattutto “con” loro, attraverso l’attivazione di processi partecipativi e dal basso.

Questi percorsi non nascono dal nulla ma sono il frutto del lavoro che il Forum ha avviato già da molto tempo: il Forum va a scuola è la sezione in cui raccontiamo questi progetti, dalle Visite Consiglio ad OTIUM passando per il lavoro con le Assemblee di istituto o a progetti come Supereroi reali.

La rotta più lunga

Sono trascorsi quasi sei anni dall’estate del 2015, quando un milione di profughi passò da una nuova rotta migratoria, la Rotta Balcanica, e bussò alle porte d’Europa chiedendo rifugio. La politica difensiva adottata in questi anni da molti paesi europei ha coronato di chilometri di filo spinato i confini dell’Ue, potenziato la repressione della polizia di frontiera, creato dei giganteschi campi di confinamento legalizzati, quali gli hotspot, dove la vita dei migranti è al limite dell’umano, e lasciato senza alternative migliaia di persone come è avvenuto questo inverno a Lipa, in Bosnia e Erzegovina.

Quanto avviene lungo la rotta balcanica ci riguarda da vicino, sia per quello che sta succedendo lungo i Balcani sia per il fatto che quella rotta non si interrompe a Trieste ma prosegue, ininterrotta.

La campagna Cambiamo Rotta! è stata pensata per queste ragioni: a Lipa, a Bihac, in Bosnia, l’obiettivo è quello di realizzare alcune infrastrutture di base per dare sostegno e garantire la sopravvivenza delle persone che attraversano questo viaggio; in Trentino, vogliamo far sì che quante più persone possibili tengano gli occhi aperti. Costruire una fortezza sempre più sofisticata non solo non è la strada su cui continuare a costruire l’Europa ma mette in pericolo i diritti di tutte e di tutti.

Sì, perché quella che chiamiamo “fortezza Europa” è l’affermazione di un sistema – giuridico, politico, culturale – basato sull’idea che «l’universalismo dei diritti all’interno è accettabile se e nella misura in cui lo Stato selezioni in modo rigoroso i nuovi membri della comunità al confine» (M. Savino).

Hard outside, soft inside: questo universalismo di facciata si autoalimenta in un errore diffuso, quello di considerare le attuali modalità di migrazione dal Sud al Nord del mondo come le uniche possibili e, perciò, immutabili.

Un’idea, questa, che a lungo andare va a ledere il nocciolo essenziale dei diritti, spiana la strada alla (ri)emersione del nazionalismo, mina le fondamenta stesse dell’ordinamento europeo così come immaginato da Ventotene in avanti.


Per contribuire, con la causale PROGETTO BALCANI:   

Opera Diocesana Pastorale Missionaria Cassa Rurale Alto Garda IBAN: IT 28 J 08016 05603 000033300338. Conto corrente postale n. 13870381.  

Per i privati che usufruiscono della DETRAZIONE IRPEF Opera Diocesana Pastorale Missionaria – sezione ONLUS Cassa Rurale Alto Garda IBAN: IT 70 L 08016 05603 000033311172. Conto corrente postale n. 30663371.