Il 2021 appena trascorso è stato per il Forum trentino per la pace e i diritti umani un anno intenso, complesso ed entusiasmante. Gli ostacoli dettati dalla altalenante situazione pandemica sono diventati in realtà stimolo ad un approccio flessibile, ad una prontezza a modificare il proprio cammino cercando una strada migliore.
L’equilibrio nel suo complesso, un po’ come nell’andare in bicicletta, è dato dal movimento non dallo stare fermi. Ed è così che guardando indietro ci siamo trovati con un anno in cui le attività sono letteralmente esplose, sommando alla normale operatività tutti i ragionamenti, i gruppi di lavoro, le riflessioni relative al nostro trentennale. Trovate qui quindi una serie di materiali scritti e visuali per raccontare il nostro 2021.
I testi
Innanzitutto la nostra relazione riassuntiva delle attività dove, in relativamente poche pagine potete trovare la traccia di quanto abbiamo fatto. Ma se volete approfondire o capire meglio qualche progetto maggiori particolari nel nostro resoconto completo dove con maggiore dettaglio viene descritto anche il processo di costruzione degli eventi ed attività
Le infografiche
Raccontare un anno di attività richiede anche una grande capacità di sintesi e di saper evidenziare i punti salienti, quantitativi di quanto è avvenuto e questo lo potete trovare nella presentazione che descrive il 2021 e detta la linea iniziale del 2022.
Ma comunicare bene vuol dire anche presentare le attività in modo efficace e questo pensiamo sia riscontrabile soprattutto nel nostro bilancio sociale 2022.
Attivismo e cura del mondo sono due degli orizzonti d’azione che il Forum si è dato in questi trent’anni, due degli elementi su cui abbiamo più riflettuto nel corso della rassegna “Eppure il vento soffia ancora”.
Nel “Manifesto della cura. Per una politica dell’interdipendenza”, volume del collettivo inglese The Care Collective, pubblicato e tradotto in Italia da Edizioni Alegre, ad un certo punto viene detto chiaramente: “se la cura diventasse il principio organizzativo di tutti gli stati del mondo, infatti, la disuguaglianza economica e le migrazioni di massa diminuirebbero e l’ingiustizia ambientale troverebbe rimedio grazie all’impegno reciproco alla cura del mondo”.
Questo tratto comune, legato alla cura del mondo e delle relazioni che lo attraversano, lega le nostre riflessioni e ha avuto particolare risalto nelle chiacchiere e negli approfondimenti del 10 giugno scorso, data del “compleanno” del Forum.
Dentro al tendone del Trento Film Festival, il dialogo tra Marirosa Iannelli, Monica Di Sisto, Roberto Barbiero e Paulo Lima, ci ha offerto l’occasione di attraversare la società della cura, quella che già esiste e quella che ancora non c’è. La crisi – climatica, sociale, economica, culturale, umana – sullo sfondo e i grandi temi del presente in primo piano: i limiti di una politica che guarda all’oggi e la necessità di immaginare un Recovery Planet; l’interconnessione – tra diritti, crisi, responsabilità – e la necessità di farvi fronte attraverso un lavoro di rete, generativo e partecipato.
E la cura è uno dei temi che ha attraversato, quella sera, il dibattito tra ex che ha visto protagonisti Roberto Pinter, Violetta Plotegher, Vincenzo Passerini, Katia Malatesta e Michele Nardelli.
“Il Forum della pace non ha dato vita al movimento – il movimento, semmai, ha ispirato la nascita del Forum della pace”, ci ha ricordato Pinter, “ha permesso, però, una cura continua e quindi anche dicoprire, non solo come strumenti, sostegno e politiche ma anche di coordinare, dare voce, dare forza”.
La discussione, poi, ha guardato anche moltissimo al modo in cui le esperienze che il Forum ha incrociato in questi anni ancora raccontino molto al nostro mondo: ce lo ha ricordato Vincenzo Passerini, ripercorrendo gli anni della sua presidenza – dal G8 di Genova alle Torri Gemelle, dalla guerra in Afghanistan alla seconda guerra del Golfo: “a Genova”, ricorda, “è stato terribile perché si è voluto colpire la manifestazione pacifica e si è voluto lasciare i black block a distruggere il centro di Genova senza intervenire. Tutto questo, con una risonanza mediatica enorme: il movimento per la pace ha preso così un colpo terribile”.
Ma non solo: le riflessioni che hanno attraversato le presidenze oggi ancora ci offrono lo spunto per immaginare il futuro del Forum: “bisogna far sì che si faccia tesoro dell’esperienza delle guerre perché l’educazione alla pace va fatta anche attraverso lo smascherare la menzogna continua della guerra, sia prima, sia durante e sia dopo”, conclude Passerini.
E Michele Nardelli ci invita a riflettere sull’ipocrisia di alcune delle parole che più usiamo: “non c’è soltanto la banalità del male”, osserva, “c’è anche la banalità del bene. Del fatto – cioè – di accontentarsi di fare del bene quando, in realtà, esistono problemi di natura strutturale senza la risoluzione dei quali non c’è alcuna possibilità di venire a capo delle ragioni di fondo che determinano le guerre, sia quelle tradizionali che quelle nuove”.
Tutto questo in un contesto cambiato che, però, non può coglierci del tutto impreparati: “credo che occorra un’educazione permanente alla nonviolenza, alla capacità di relazione non-conflittuale con l’altro della generazione adulta”, osserva Violetta Plotegher, aggiungendo “una delle violenze quotidiane che verifichiamo è la violenza di genere: non è stato un tema che ha lasciato indifferente il Forum. Se di conflitti, di guerre, dobbiamo parlare, dobbiamo parlare anche delle opportunità e delle dimensioni positive per farci fronte”.
“Al Forum si parla di pace sempre attraverso qualcos’altro”, ricorda Katia Malatesta, “Forse è proprio una strategia inevitabile perché si fa fatica, altrimenti, a superare quel muro di indifferenza nei confronti di parole che appaiono retoriche. Eppure, dall’altra parte, abbiamo davanti l’effervescenza di un nuovo attivismo: le mobilitazioni giovanili che, per certi aspetti, ci hanno presi alla sprovvista e con cui dobbiamo dialogare attorno al tema cruciale del cambiamento climatico, dell’emergenza climatica”.
Un attivismo che ha forme e modalità nuove, che non si riconosce necessariamente nell’associazionismo classico ma a cui (e con cui) deve dialogare sui temi e nel proporre un approccio intersezionale a fronte delle battaglie complesse del nostro presente.In questo, osserva Malatesta “sono le istituzioni ad essere in grave ritardo rispetto a queste mobilitazioni: cosa fa la politica? In questo il Forum può avere ancora una sua funzione come strumento di coordinamento, come anello tra la società civile e le istituzioni”.
“In piccoli luoghi, vicino a casa, così vicini e così piccoli che non si possono vedere su nessuna carta del mondo. Eppure si tratta del mondo della singola persona, il vicinato in cui vive, la scuola o università che frequenta, la fabbrica, la ditta o l’ufficio in cui lavora. Questi sono i luoghi in cui ogni uomo, donna e bambino cercano giustizia, opportunità e dignità uguali, senza discriminazione. A meno che questi diritti non abbiano un significato in questi ambiti, essi avranno poco significato altrove. Senza attività coordinate dei cittadini per far sì che questi diritti vengano seguiti nel proprio ambiente, cercheremo invano progressi nel più vasto mondo.”
Questa citazione di Eleanor Roosevelt ci ricorda come i diritti umani siano una questione che bisogna affrontare ogni giorno, nel quotidiano, e non bisogna mai dare per scontata neppure in territori che non sembrano dover essere chiamati in causa, come il Trentino.
Così la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, diventa un testo guida, un faro che ci indica la meta ideale, ancora molto lontana, da raggiungere e nella quale stabilirsi saldamente senza tornare mai più indietro.
La dichiarazione firmata nel 1948 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, ha un carattere esecutivo molto complesso che si scontra molto spesso con le interpretazioni di ogni magistratura e la sovranità degli Stati che l’hanno firmata. Daria De Pretis, giurista, accademica, avvocata, giudice della Corte costituzionale della Repubblica Italiana, ci spiega infatti come c’è bisogno di un continuo dialogo tra le varie corti per concretizzare i vari diritti enunciati, che nonostante abbiano valore giuridico sono in molte parti non ancora attuati.
Questo è dovuto non solo alla grande complessità della relazione tra diritto Internazionale e nazionale, ma anche alla difficoltà di percepire la mancanza di un diritto, dovuta all’ignoranza, all’accettazione di determinate condizioni o semplicemente dall’impossibilità di fare altrimenti.
Una delle critiche rivolte verso i diritti umani, è quella di essere una concezione puramente occidentale figlia dell’imperialismo bianco. A questa critica, Elisa Bertò, filosofa, ci risponde raccontando un importante episodio avvenuto nel 1968. L’allora direttrice del dipartimento di filosofia dell’Unesco, aveva chiesto a tutti i paesi membri di inviare testi di qualsiasi epoca, qualsiasi stile espressivo prima del ‘48 in cui si manifestasse un qualsiasi senso o concezione di diritti umani. Arrivarono testi da tutti gli angoli della terra, dal 3000 a.c. fino al 1948 nelle più svariate forme artistiche e fu impressionante constatare le straordinarie similitudini che si ritrovarono anche nelle culture più diverse e lontane.
Di diritti umani se ne parla da 5mila anni, ma non è ancora abbastanza.
Di questo ci hanno parlato Simone Alliva giornalista di inchiesta…. e Franco Grillini ..attivista e presidente onorario Arcigay grazie alla moderazione di Carla Maria Reale, Commissione provinciale per le Pari Opportunità tra donna e uomo
Oggi la questione lgbt è sulla bocca di tutti, per fortuna, ma non è stata ancora assimilata dalla maggior parte della popolazione e per questo bisogna ancora lavorarci, discuterne, parlarne e cercare di sensibilizzare le persone sull’accettazione della diversità di genere.
Dopo millenni di separazione netta e duale dei generi, quello che stiamo vivendo ora è una rivoluzione gentile, che come racconta Franco Grillini è partita come atto di coraggio e incoscienza di pochi, che in un contesto nel quale la parola omosessuale era innominabile, hanno intrapreso il cammino, non libero da ostacoli, verso la libertà.
Un cammino che portò,nel 1990, alla cancellazione dell’omosessualità dall’elenco delle malattie mentali da parte dell OMS, ricorda Simone Alliva
Tuttavia il percorso è ancora lungo e faticoso, ma tutti possiamo e dobbiamo fare qualcosa per arrivare a raggiungere una reale libertà sia individuale che collettiva, non solamente una libertà di agire, ma soprattutto una libertà di essere.
“La questione della diversità non riguarda solamente le persone omosessuali, ma tutti. Tutti devono trovare un posto dove possono sentirsi se stessi.Questa è la grande rivoluzione culturale.” Franco Grillini
La “lotta” per la pace passa attraverso strumenti estranei, se non opposti, alla “lotta tradizionale”. Strumenti che non sovrastano l’altra persona, ma si mettono sullo stesso piano, cercando di parlarci insieme, di discutere e trovare un sentiero comune. A questi strumenti appartengono la nonviolenza e l’educazione.
In Italia, la nascita della cultura della nonviolenza e della pace, ha una data precisa, dice il presidente del Movimento Nonviolento ItalianoMao Valpiana, cioè il 24 settembre 1961, la prima Marcia per la Pace Perugia-Assisi, promossa da Aldo Capitini.
Da allora il movimento pacifista italiano è stato una realtà politica che, “gentilmente” ha ottenuto diverse vittorie, dall’istituzione del Servizio Civile Universale nel ‘72 al referendum per l’abbandono del nucleare in Italia nell’87, quando il movimento pacifista collaborò significativamente con il movimento ambientalista e si crearono importanti reti di relazione.
La nonviolenza è un’alternativa reale alla guerra, un’alternativa percorribile ed efficace così come si è visto nella seconda vita della storia del movimento pacifista e nonviolento italiano, dopo che la guerra arrivò in Europa negli anni 90. “Il pacifismo mette i piedi sul terreno, come i militari” percorrendo i luoghi di guerra per ricostruire con la popolazione locale nuove politiche e nuove visioni.
“Non bisogna riammettere la guerra come protagonista della storia “ diceva Alexander Langer, e i corpi civili di pace potrebbero esserne una valida alternativa istituzionale.
Se la nonviolenza, può essere un’azione diretta che porta a dei risultati concreti e visibili, come il blocco dei treni delle munizioni americane dirette nel Golfo Persico, l’educazione alla pace è uno strumento “invisibile”, che nell’era del pragmatismo e della super efficienza viene spesso considerata inutile, come spiega Giuseppe Ferrandi, presidente della Fondazione Museo Storico del Trentino.
L’educazione alla pace significa tessere relazioni, che sì sono invisibili, ma hanno un’impatto potentissimo nella quotidianità delle vita delle persone. Non bisogna essere degli esperti per educare a metodi alternativi alla violenza e alla guerra, ma bisogna “sporcarsi le mani di pace” come ricorda Lisa Clark, rappresentante italiana per ICAN: ”Spesso mi chiedono che studi ho fatto, che università ho frequentato. La mia educazione per la pace, la mia scuola è stata Sarajevo” E ancora Franco Vaccari, fondatore e presidente di Rondine Cittadella della pace, ribadisce che l’educazione alla pace può venire soltanto dall’esperienza come succede a Rondine, dove non vengono a parlare solamente “esperti” di pace, ma ma persone molto eterogenee con bagagli di esperienza molto diversi :”La questione della pace è una questione umana e se la releghiamo ad una semplice professione siamo davvero rovinati”